Danni al DNA associati ad un difetto nella loro riparazione sono
caratteristiche intrinseche di alcune cellule di pazienti affetti dalla sindrome
di Down. Lo studio dell’Igm-Cnr e dell’Università degli studi di Pavia, pubblicato
sulla rivista Mutation Research, indica
la necessità di una prevenzione precoce.
La sindrome di Down, o Trisomia
21, è caratterizzata dalla presenza di una copia extra del cromosoma 21, uno
sbilanciamento nel corredo genetico che risulta nell’aumento dell’espressione
di alcuni geni localizzati su questo cromosoma e che si traduce poi in varie
forme di disabilità intellettuale, di invecchiamento precoce, nella propensione
a sviluppare una patologia simile all’Alzheimer o alcuni tipi di leucemia.
“L’anomala espressione dei geni
associati al cromosoma 21 causa uno squilibrio nel funzionamento di alcune
proteine che regolano il metabolismo dell’ossigeno, dando luogo allo ‘stress
ossidativo’, ovvero un accumulo dei prodotti di scarto del metabolismo stesso,
forme molecolari altamente reattive e tossiche per le cellule”, spiega Ennio
Prosperi dell’Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle
ricerche (Igm-Cnr) di Pavia. “Si ritiene che gli aspetti patologici della
sindrome di Down siano correlati con un aumento dello stress ossidativo, che
può danneggiare diversi componenti cellulari ed in particolar modo il DNA. La
nostra ricerca si è concentrata sulla capacità delle cellule dei pazienti Down
di far fronte a questo ‘stress’, e su altri aspetti sinora non chiari come
l’insorgenza temporale e le conseguenze di questi danni”.
Lo studio, condotto da
ricercatori dell’Igm-Cnr e del Dipartimento di scienze del farmaco
dell’Università degli studi di Pavia, è stato pubblicato sulla rivista Mutation Research (Fundamental and
Molecular Mechanisms of Mutagenesis).
“Abbiamo analizzato alcuni
parametri indicatori della difesa cellulare dallo stress ossidativo in
fibroblasti fetali, provenienti dalla Biobanca dell’Ospedale Galliera di
Genova, e in quelli ottenuti da pazienti adulti, e li abbiamo poi confrontati
con fibroblasti ottenuti da individui sani di pari età”, chiarisce Daniela
Necchi dell’Università di Pavia. “In particolare abbiamo studiato la capacità
delle cellule a segnalare la presenza di un danno al DNA (indotto
sperimentalmente) e a ripararlo. I risultati mostrano che i meccanismi di
risposta ai danni al DNA sono attivati anche in assenza di uno danno indotto,
sia nelle cellule fetali sia in quelle di pazienti adulti, suggerendo che le
cellule dei soggetti Down possano essere esposte a un aumentato stress
ossidativo già nello stadio fetale”.
“La ricerca dimostra inoltre che
le cellule dei pazienti Down sono meno capaci a riparare i danni ossidativi a
causa di un accumulo anomalo di fattori della riparazione del DNA, la cui
origine rimane da chiarire”, conclude Prosperi. “Da queste informazioni emerge
la necessità di una maggiore salvaguardia dall’esposizione a fattori di
rischio, come gli agenti chimici e fisici di natura genotossica, non solo dei
pazienti Down ma anche delle future madri con diagnosi accertata, allo scopo di
ridurre l’insorgenza di patologie correlate al danno ossidativo ed associate
alla sindrome di Down. Infine, è importante approfondire gli studi
sull’utilizzo precoce di antiossidanti, già in corso in diversi paesi, per
prevenire più efficacemente l’accumulo di stress ossidativo nei pazienti Down”.
Didascalia immagine: Visualizzazione delle lesioni di tipo
ossidativo nel DNA di cellule del derma (fibroblasti) da paziente Down,
rispetto a cellule di individuo sano. L’immagine ottenuta mediante microscopia
in fluorescenza mostra i nuclei cellulari contenenti il DNA (in blu) e la
presenza delle lesioni ossidative (indicate dalla freccia) evidenziate mediante
reazione immunofluorescente (in verde). La barra bianca corrisponde ad un
centesimo di mm.
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