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martedì 25 luglio 2017

No, la depressione non è tristezza. E non si combatte “dandosi una mossa”

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La depressione è una malattia dall’origine ancora oscura e soggetta a ogni sorta di malinteso. 

Il risultato è una condizione, per chi ne soffre, aggravata e segnata dallo stigma sociale


Una “perturbazione dolorosa, più forte di ogni istanza moderatrice del volere”: così Carlo Emilio Gadda ne La cognizione del dolore descrive lo stato depressivo. 

Una rappresentazione che prenderemo per buona, perché una definizione soddisfacente di “depressione” ancora non esiste, e l’arte, in casi come questo, può venirci in aiuto, considerato che metà del suo scopo è proprio dare corpo agli stati d’animo più emblematici.

«Un errore che si fa spesso in buona fede con le persone affette da depressione è sollecitarli a reagire», spiega la psichiatra Cristina Toni, durante la conferenza La depressione: in cerca di una definizione (tra tristezza e malinconia). «Nella depressione c'è una fissità dello stato di dolore che non è influenzabile dalla volontà. Ciò che viene a mancare è proprio la volontà».


In buona sostanza chi – più o meno bonariamente – incita una persona depressa a darsi da fare («perché io ho avuto lo stesso problema e mi sono rimboccato le maniche» e via dicendo…) semplicemente non considera un fatto: la depressione non è la tristezza e il suo contrario non è la felicità, ma la vitalità. Lo spiegava già bene Gadda: “Più forte di ogni istanza moderatrice del volere”.


Distinguere depressione e tristezza – e ancora: malinconia, blues, spleen, lutto – è di fondamentale importanza secondo la dottoressa Toni. Perché la tristezza è uno stato d’animo connaturato nell’individuoun’emozione fisiologica con una funzione adattativa importantissima, motivazionale e di analisi. 


La depressione invece è totalizzante e si traduce in un generale rallentamento, sia fisico che cognitivo ed emotivo. Tanto che, in alcuni casi, non si è più nemmeno in grado di fare le cose banali, dall’andare al lavoro a farsi la doccia.


Semplicemente, tutto diventa incredibilmente impegnativo. Alzarsi dal letto e lavarsi i denti è paragonabile a un’escursione in montagna, tutta in salita e sotto il sole (e senza borraccia d’acqua o barretta di cioccolato per darsi energia). 


Ogni azione si scompone nel cervello in tante micro azioni, tutte con un proprio peso specifico, tutte dispendiose di energia. E, soprattutto, tutte senza senso.


In una società attiva e molto prestazionale come la nostra, una persona che soffre di depressione è ancora soggetta a uno stigma fortissimo. A parte qualche emo superstite e certe ragazzine che su Instagram postano selfie dolenti accompagnati dalla posologia dei propri farmaci, le persone non amano pubblicizzare questa condizione, perché pensano che allontani le persone e che peggiori la propria immagine pubblica.


E hanno ragione. Lo confermano due studi condotti dal professor Guy A. Boysen della McKendree University (in uno, ad esempio, i partecipanti dovevano indovinare la bellezza fisica di alcune persone a partire da indicazioni caratteriali), che provano in buona sostanza che nella percezione comune le persone con disturbi mentali – come depressione e schizofrenia – hanno meno probabilità di avere successo nelle relazioni.

La depressione non è la tristezza e il suo contrario non è la felicità, ma la vitalità

Provoca vergogna, dunque. Eppure è incredibilmente diffusa. “Ora so che la depressione è il segreto di famiglia di ognuno di noi” ha detto lo scrittore Andrew Solomon durante un brillante Ted Talk sull’argomento.

Se le nostre case fossero, come nei film americani, tutte dotate di seminterrato, è lì che probabilmente si troverebbe: nella tana dell’uomo-topo di Memorie dal sottosuolodi Dostoevskij.

Per Solomon la depressione può essere evocata solo da metafore (l'abisso, il bordo, l'oscurità). O, per Dickens, il tarlo che erode lentamente.

Andrew Solomon è un uomo sano, ricco, bianco, che di mestiere fa lo scrittore. Una di quelle persone che “hanno tutto”. Eppure in un momento della sua vita si è ritrovato a non riuscire ad alzarsi dal letto ed è arrivato a fare consapevolmente sesso con uomini che presumeva sieropositivi nella speranza di contrarre il virus a sua volta.

Per chi non ha mai sperimentato episodi depressivi, reazioni anche ben più lievi di questa sembrano del tutto incomprensibili. Non solo, anche chi ne è affetto è spesso consapevole di quanto sia assurda e grottesca la propria visione, ma non riesce comunque a sottrarsi.

Tentare di spiegare è quasi una causa persa, anche considerando che, per parafrasare un altro russo, “tutte le persone felici sono felici allo stesso modo, ogni persona infelice è infelice a modo suo”. Esistono infatti diversi tipi di depressione: quella ansiosa e concitata, quella che si esprime con sintomi fisici più che attraverso l’umore, la depressione malinconica – la più grave – e quella cronica, più lieve, che spesso viene combattuta a forza di automedicazioni come alcol e i sedativi.

Esistono però dei tratti fondamentali e comuni. Innanzitutto, la depressione ti rende solo. E non tanto perché ti fa diventare una persona sgradevole (La persona depressadi David Foster Wallace ha reso questa sgradevolezza al punto da rendere quasi intollerabile l’intero racconto). Pur sapendo che è un’esperienza comune a molti, infatti, per chi ne soffre è qualcosa di unico, che erige una barriera ovattata tra te e gli altri: il vasto mondo dei non depressi. Se si è soli, ci si sente abbandonati. Se si è circondati da amici, ci si sente in colpa per loro (e in colpa verso se stessi per l’importanza stratosferica che, nel bene e nel male, acquista una semplice presenza umana).

Le persone depresse si sentono sempre colpevoli. Nei confronti degli altri e nei confronti di se stessi. La natura solipsistica di questa condizione si accompagna a una sorta di narcisismo al contrario per cui, per quanto possa sembrare demenziale, è quasi impossibile convincersi che: no, non si fa più schifo di qualsiasi altra persona sulla terra. 

Sembra che un velo di finta felicità sia stato sollevato scoprendo la Realtà con la R maiuscola. Ma come Zion in Matrix, anche questa realtà così cupa, per quanto possa sembrare frutto di lucido disincanto, non è che una possibile interpretazione di qualcosa di fondamentalmente insondabile.

In una società attiva e molto prestazionale come la nostra, una persona che soffre di depressione è ancora soggetta a uno stigma fortissimo


Una volta stabilito che tristezza e depressione sono due cose diverse, un altro fraintendimento tipico è che la terapia (psicologica o farmacologica) sia una specie di “scelta comoda” di fronte ai problemi del reale. In realtà la scelta di curarsi porta con sé tantissime difficoltà: viene da chiedersi se i farmaci ti stiano restituendo il vero te stesso o se ti stiano trasformando in qualcun altro.

Allo stesso modo ci si interroga sulla natura del problema: chimico o psicologico? Probabilmente entrambi. «Nonostante tutti i progressi compiuti dalle neuroscienze, non conosciamo ancora la patogenesi della depressione», spiega ancora la dottoressa Toni. Di certo, come dice Solomon; «è qualcosa che si radica talmente in profondità che non può più essere scissa completamente dalla nostra personalità».

Altro errore comune che porta a sottovalutare – e addirittura a provare irritazione nei confronti dei cosiddetti depressi – è considerarlo un male moderno, occidentale, alto borghese. Nella storia della cultura ce n’è traccia più o meno in ogni epoca: si parte già con Omero per proseguire con Tommaso d'Aquino, Shakespeare, Baudelaire, Keats, Van Gogh, Virginia Woolf ed Emily Dickinson, che sentiva “un funerale nel proprio cervello”.

Solomon, che dopo la sua esperienza ha dedicato una buona parte della carriera all’approfondimento del tema, ha studiato a lungo la depressione tra gli strati indigenti della popolazione. «È il risultato», spiega, «di una vulnerabilità genetica – presumibilmente equamente distribuita fra la popolazione – e di circostanze scatenanti, verosimilmente molto più gravi per gli indigenti».

Ma se la tua vita va a gonfie vele e ti senti sempre una nullità, il sospetto di avere qualcosa che non va sorge spontaneo. Se la tua vita invece è un disastro economico e affettivo e ti senti una nullità, be’, in tal caso pensi semplicemente di avere ragione.

Solomon ha raccolto storie da tutto il mondo, dalla Cambogia al Ruanda, e per quanto riguarda le terapie, da rigido paladino della medicina occidentale, per i problemi dell’umore ha finito per sposare la strategia “basta che funzioni”. Ci sono persone che sostengono di trarre grande beneficio dal lavoro a maglia: chi siamo noi per criticare?

Tra libri e farmaci, lo scrittore sembra aver trovato un proprio equilibrio: ha imparato a non preoccuparsi e ad amare la depressione. Non per tutti l’esito è così positivo. Se nelle classi più elevate il fenomeno è probabilmente sovrastimato (e sovra curato), tra i più poveri l’accesso a terapie mirate è in genere proibitivo.

È facile scoraggiarsi: le cure, oltre a essere costose, hanno efficacia incerta e causano parecchi effetti collaterali. Ma è comunque importante pretendere di più, non arrendersi a uno stato d’animo invalidante che in molti casi finirà per peggiorare. Perché se la tristezza fa parte della vita, la depressione vera, quella clinica, è forse la disabilità più diffusa al mondo.

La depressione ti rende solo e ti fa sentire colpevole. Pur sapendo che è un’esperienza comune a molti, infatti, per chi ne soffre è qualcosa di unico

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